“Orologi rossi” – Leni Zumas

Perché la maternità non definisca la femminilità.

Attenzione: siamo di fronte a un distopico che poi tanto distopico non appare. Certo, tra queste pagine c’è il Muro Rosa che separa l’America dal Canada. Ci sono leggi già entrate in vigore e altre che stanno per farlo che cambieranno soprattutto la vita delle donne. E allora dov’è l’inganno? Siamo di fronte a un romanzo che, come ogni distopia che si rispetti, ci mette in guardia dall’estremizzazione di condotte e pensieri già presenti nel mondo reale e contemporaneo.

Volete un esempio? Quante di voi donne, lettrici di questo blog, si sono sentite chiedere: E tu che aspetti a fare un figlio? Oppure, d’altro canto: Hai una famiglia, una casa… ma che cosa ti manca? Qualcuno potrebbe ribattere che dietro queste due solo in apparenza innocenti domande non si nasconda niente di sbagliato. A voler proprio cercare il pelo nell’uovo, forse un peccatuccio di curiosità. Invece no, non è così.

Restate con me e vi spiegherò perché.


Avete mai sentito rivolgere almeno una di queste domande a un uomo? No, vero? Lo immaginavo.

Perché per qualche strano retaggio culturale e sociale, la femminilità continua a essere identificata con la maternità. Anche se non hai figli, è probabile che chi è intorno a te si chieda se ne farai mai. Se ti prendi cura di qualcuno, penseranno che è un modo per sublimare questa necessità.

In poche parole, quello che Leni Zumas ci spinge a chiederci, se non lo abbiamo mai fatto prima, è se la maternità sia la definizione completa e perfetta della femminilità, intesa come l’esser appunto soggetti umani di sesso femminile. Solo se sono madre posso dirmi donna? Un pensiero che fa rabbrividire, ma che, vi assicuro, è estremamente radicato in certi pensieri e che ancora oggi, nel 2021, facciamo tanta fatica a combattere.


Volete un esempio? Quante di voi donne, lettrici di questo blog, si sono sentite chiedere: E tu che aspetti a fare un figlio? Oppure, d'altro canto: Hai una famiglia, una casa... ma che cosa ti manca? Qualcuno potrebbe ribattere che dietro queste due solo in apparenza innocenti domande non si nasconda niente di sbagliato. A voler proprio cercare il pelo nell'uovo, forse un peccatuccio di curiosità. Invece no, non è così.


In Orologi rossi troviamo in apparenza quattro protagoniste femminili. Sottolineo in apparenza, perché assistiamo anche a frammenti di vita dell’esploratrice polare Eivør Mínervudottír, di cui la biografa Ro sta scrivendo. Un’esploratrice del diciannovesimo secolo, che si muove in una società e in un contesto popolato da personaggi maschili. Una donna libera che ha posto nella ricerca il fine della sua esistenza. Una vita, detto per inciso, che la porta a viaggiare e a conoscere, ma che le toglie i giusti riconoscimenti che si meriterebbe.


Tornando, invece, a parlare delle quattro protagoniste ufficiali, il primo particolare che salta agli occhi, insieme all’alternanza delle loro voci, è che siano individuate nella divisione in capitoli non con il loro nome, ma con uno status: la biografa, la guaritrice, la figlia, la moglie. Una parola che dovrebbe dire tutto di loro, ma che crolla quando la complessità del loro esser donna e dei loro singoli desideri viene fuori prepotente. Scorriamo velocemente ognuna di loro, per cercare di capire la complessità che si cela dietro le etichette che, ormai lo sapete, detesto e mi vanno un po’ strette.


Siamo donne, tutte, tutte noi. Non sarà un figlio a renderci più o meno donne. La nostra femminilità è complessa, non esiste una definizione univoca e ciò che caratterizza una di noi può contrapporsi in modo netto a quello che ne caratterizza un'altra. Nessuna sarà migliore o peggiore. Saremo solo diverse. 
Perché uno degli insegnamenti di questo libro è che la femminilità non è risponde a una definizione univoca.

La biografa Ro è una donna single. Ha un lavoro, una casa. Ha anche una passione che coltiva. Insomma, ha scelto di non accompagnarsi a qualcuno, ma non per questo non conosce l’amore. Forse è uno dei personaggi che lo conosce più di tutti, perché è ancora forte in lei il ricordo del fratello perso in modo drammatico qualche tempo prima.

Eppure, Ro vuole un figlio. Come donna single, però, presto non potrà più averlo.

Ro è una donna che combatte contro il desiderio di avere un figlio e un corpo che lei definisce guasto, in una società che la invita a farsene una ragione e che poi le proibisce di diventare madre in altri modi.


La guaritrice Gin è madre e figlia della natura. Un’incarnazione contemporanea delle vecchie streghe apertamente perseguitate e guardate con sospetto nel Medioevo, ma alla cui porta si andava a bussare per risolvere piccoli e grandi problemi. Gin, con i suoi segreti e misteri, è la rappresentazione del fascino e al contempo della paura del potere femminile.

Segnalo, per i lettori, che i passaggi del libro in cui ci immergiamo nei pensieri di Gin sono quelli più particolari e potrebbero richiedere una lettura ripetuta per essere compresi al meglio. D’altronde, l’ho scritto subito, la guaritrice appartiene a un mondo magico che si distacca da Newville, un villaggio di pescatori nell’Oregon.

Eppure, ve lo assicuro, Gin sarà il fil rouge che unirà tutte le protagoniste.


La figlia Mattie è un’allieva di Ro: brillante, ambiziosa. Peccato che resti incinta del ragazzo che si stanca subito di lei, prima che lei possa condividere con lui la notizia della gravidanza.

Una gravidanza, questa, che Mattie non accetta. La legge che garantisce piena tutela dei diritti dell’embrione basterà a convincerla a tenere il figlio? Da sottolineare, credo, anche il fatto che Mattie sia stata a sua volta adottata. Dovrebbe, in poche parole, conoscere l’importanza di una possibilità diversa.


La moglie Susan conduce una vita in apparenza perfetta: una casa, un marito, due bambini. Ro la invidia. Susan invece invidia la libertà di Ro.

Susan è una donna che si dedica quasi interamente alla famiglia. Dovrebbe fare di più in casa, forse potrebbe farlo, ma questo è quanto ci si aspetterebbe da lei, non quello che desidera realmente. Susan vorrebbe soltanto un po’ di tempo per sé, un momento di evasione. Vorrebbe tutto questo, ma si sente bloccata nella definizione di perfezione che gli altri le hanno dato. Eppure si sente insoddisfatta, infelice. Così tanto da arrivare a pensare di farla finita.

[A questo proposito, apro una parentesi per suggerire un altro bellissimo libro su una figura materna non convenzionale: Carole Fives, Fino all’alba]


Che cosa ci insegna questo libro?

Tante cose e sarebbe riduttivo provarle a elencare tutte. Uno degli insegnamenti principali e che sposa il tema del libro e di questa recensione, è che la maternità non ci definisce. Non è l’aver fatto o meno un figlio a renderci o no donne. Non è l’aver sentito il desiderio di una gravidanza o al contrario non aver scelto questa strada a renderci o no donne.

Questo è un libro che tutti dovrebbero leggere, soprattutto le donne. Sì, perché le domande che vi ho riportato all’inizio feriscono sempre, ma soprattutto quando chi le pronuncia è una di noi.

Siamo donne, tutte, tutte noi. Non sarà un figlio a renderci più o meno donne. La nostra femminilità è complessa, non esiste una definizione univoca e ciò che caratterizza una di noi può contrapporsi in modo netto a quello che ne caratterizza un’altra. Nessuna sarà migliore o peggiore. Saremo solo diverse. Perché uno degli insegnamenti di questo libro è che la femminilità non è risponde a una definizione univoca.



12 risposte a ““Orologi rossi” – Leni Zumas”

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