“Farsi voce” di Serena Barsottelli


Ho riposto l’album dei ricordi sul ripiano più alto dell’armadio. Protetto dentro una scatola, e soprattutto nascosto ai nostri occhi. Avrei pianto troppo sfogliandolo, come l’ultima volta, memore delle promesse che ci eravamo fatte e che poi, inevitabilmente, avevamo infranto.

Le foto sono specchi imperfetti: ci rimandano chi siamo stati, quanto ci siamo traditi. Non sono pronta a fare i conti con tutto quello che avresti potuto essere, che avremmo potuto essere insieme. E oggi, mamma, anche se mi sedessi accanto a te, non le guarderesti neppure.

Resti seduta su una poltrona che non conosci più, quella che avevi fatto rivestire con una stoffa rossa, natalizia, molti anni fa, proprio in quei giorni che furono gli ultimi in cui scorsi davvero il tuo sorriso. L’orologio sul mobile alle tue spalle risuona di un ticchettio fastidioso che mi martella le tempie. Tu non te ne accorgi. Dove sei, oggi? Quale vita stai vivendo?

«Ciao mamma, vado…»

Mi accovaccio vicino a te e provo a guardare il mondo dal tuo punto di vista: fuori dalla finestra i rami d’ulivo danzano appena nel vento; sullo sfondo le placide montagne. Se ne stanno immobili, come te, mentre il tempo le corrode. Il tempo ti corrode.

La tua guancia profuma di crema idratante. L’annuso a occhi chiusi, mi ricorda chi sei. Vorrei appoggiare la mia bocca sulla tua pelle e regalarci un tenero bacio, uno di quelli di cui non mi avevi mai privata quando ero piccola. Vorrei, ma non ti sfioro: non sopporto l’idea che tu non ti ricordi di me.

Alzi il braccio pesante come un blocco di marmo e l’indice si stacca dal palmo, aprendosi piano piano e puntando una macchia rossa che attraversa il cielo limpido e si posa sul tronco aggrovigliato dell’ulivo. Apri appena la bocca, e forse sto impazzendo, ma mi sembra di scorgere il contorno dolce del tuo sorriso.

Muovi le labbra, non esce niente. Osservo meglio, divento la tua voce: «Un pettirosso. Non è magnifico?»

Annuisci, e per un attimo siamo insieme, davvero, nella minuscola sala da pranzo che adesso è diventata tutto il tuo mondo. Un mondo che non riconosci più se non in qualche breve momento, sempre più raro e prezioso, come quello che abbiamo appena vissuto.

Vorrei abbracciarti, ma oserei troppo. Non sono pronta a un tuo rifiuto. Devo farmi bastare quello che mi hai appena dato. E so che per alcuni possono sembrare briciole, per altri essere niente, ma tutto ciò a cui mi appiglio è quel momento magico in cui ci sei tu e ci sono io, e siamo vicine, e siamo insieme in un posto nostro dove la malattia non arriva.

La bocca trema e provo a fermare il labbro inferiore con gli incisivi superiori. Gli angoli esterni degli occhi si inumidiscono, mentre le palpebre si aprono e mi regalano una stanza in cui la luce è più brillante, perché è bagnata dalle gocce delle mie lacrime.

«Torno presto, mamma. Te lo prometto».

Tu non ci sei più: il pettirosso è rimasto al proprio posto. Tu sei di nuovo in uno spazio buio in cui non posso penetrare.

I tuoi silenzi, le mie parole. I tuoi gesti lenti, i miei trattenuti. Viviamo d’opposti: ti barrichi in una stanza della mente per salvare le tue ultime reliquie, e io ho bisogno di uscire fuori, fare l’equilibrista sugli scogli e perdermi tra cielo e mare. Solo qui ritrovo me stessa: abbandono alla brezza leggera la confidenza del dolore, e a carta e a inchiostro la tua storia, che poi è la mia storia, la nostra storia. Ho deciso di scrivere un libro su di te, su chi sei stata e su chi saresti potuta diventare se non ti avesse colpita. Ho difficoltà ad accettare la tua malattia, preferisco parlare della tua condizione. È la parte più assurda del grande male che ci ha travolti: sono io a dover fare i conti con l’idea che mi ero fatta di te, io a camminare sulle tue macerie in cerca di qualche antico tesoro sopravvissuto al terremoto. Tu non te ne curi, ti limiti ad abitare i tuoi detriti. Ogni tanto esci fuori, ma quei momenti sono sempre più rari. Sto cercando di accettarti per quello che ora sei, di entrare nel tuo mondo con passo sottile, portandoti ogni giorno una sorpresa che ti faccia sorridere o almeno ricordare che c’è ancora vita dentro di te, sotto la tua corazza.

Ai piedi del faro ho trovato un biglietto. Era stracciato in mille pezzi, come il cuore di chi l’aveva ricevuto. Le lettere sono lame che tagliano il foglio nero: il terribile tratto della t, la pancia della p svuotata e stretta. In quei frammenti, una storia finita. Nessuna parola sarebbe riuscita a colmare quella distanza che si era formata tra loro. Vedi, mamma, com’è l’amore? Diventa così sottile e invisibile da svanire se non ce ne prendiamo cura ogni giorno.

Oggi ti racconterò dei cocci che ho ricostruito, di come le parole del biglietto mi abbiano sfiorata e ferita. Mi preparo il discorso lungo il tragitto di ritorno: ho imparato a dosare e a scandire bene le parole, ad accompagnare con gesti la voce.

«Sono tornata, mamma. Ci ho messo troppo?»

Ti volti, non mi guardi. Mi attraversi e ti fermi dietro al mio cuore. In un solo colpo blocchi il mio respiro. Avevo scordato quanto fossero azzurri i tuoi occhi. Quanto potessero sembrarmi tristi, ma mai vuoti. Davanti a loro scorrono le scene di un vecchio film che non posso vedere, ma deve essere senza lieto fine, perché il tuo viso si bagna di lacrime. Non singhiozzi, piangi in silenzio mentre con il tuo sguardo mi uccidi.

Non chiedi chi sono, perché non parli più. Forse in me vedi tua madre o te stessa da giovane.

Dalla tasca del cappotto estraggo un fazzoletto di cotone con le iniziali di papà ricamate in blu. L’ultimo ricordo di mio padre è sempre con me. Ti irrigidisci, poi mi lasci fare. Tampono i tuoi occhi uno dopo l’altro, con delicatezza, finché il pianto si placa. Tiri su con il naso, gli angoli della bocca appena piegati verso il basso.

«Va tutto bene», ti rassicuro abbracciando il tuo viso. Piego il mio sui tuoi capelli e annuso il profumo di lacca che ho spruzzato dopo averli pettinati, stamattina, in un tempo vicino che mi sembra già così lontano. «Ci sono qui io».

E tu parli, ritrovi la tua voce. Prima è un sussurro debole che non riesco a decifrare. Poi, come un’onda che si avvicina a riva, acquista vigore e coraggio.

«Grazie, mamma», mi sussurri.

Vorrei gridarti che sei mia madre, che devi tornare qui, che mi hai abbandonata, ma resto in silenzio, incasso il colpo e ti accarezzo il viso. Sorridi un’ultima volta, prima di sparire, ancora, oltre la finestra, nel giardino segreto che la tua mente continua a popolare di spettri. «Sta arrivando la notte. È quasi ora di cena», dichiaro alle ombre che abbracciano la nostra casa. Mi spoglio del cappotto, lo appendo all’attaccapanni, ti passo accanto prima di chiudermi in cucina a fare rumore con le padelle. Forse così ti sveglierai. Forse così ti ricorderai di me.

Ti adagio piano sul letto. Copro il tuo corpo prima con il lenzuolo, poi con il piumone e con la coperta. Immobile, la tua testa punta verso il soffitto.

«Stai comoda, mamma?»

Nessuna risposta. Sospiro: fa troppo caldo nella tua stanza.

«Buonanotte», bisbiglio. Prima che possa allontanarmi, mi afferri il polso e lo stringi. Capisco che vuoi che resti lì, al tuo fianco, che vegli su di te finché il sonno ti avvolgerà.

È il momento della storia. Così, finalmente, ti parlo di quel biglietto scoperto per caso. Invento il racconto di un amore che non fa funzionato, come tanti amori, come ogni amore che nel profondo è destinato a naufragare. È così difficile darsi agli altri e conservare sé stessi, non è vero? E forse ascolti, forse no, ma io continuo, finché la presa si allenta, il respiro diventa più lento e profondo. I tuoi occhi sono chiusi, e adesso puoi tornare a essere chi davvero sei, almeno nei tuoi sogni.

Ti lascio un bacio leggerissimo sulla fronte. Profumi ancora di mamma. Quella fragranza di buono che passa dall’odore di latte a quello di vaniglia. Sono tutti dolci come sei sempre stata.

«Buonanotte, mamma».

Adesso mi sento un po’ vuota. Un po’ persa. Una vertigine prepotente e il terrore di chi non sa dove andare: succede sempre quando mi trovo sola con me stessa e posso prendermi cura di me, almeno per qualche minuto. Mi trascino nella stanza accanto alla tua, mi siedo alla scrivania, apro il diario e trasferisco sulla carta tutti gli appunti dei fatti di questa giornata. Ho sempre paura che la mia mente mi tradisca. Ho imparato che non possiamo fidarci a lungo di quello che siamo oggi; e che domani potremmo essere diversi, aver dimenticato noi stessi.

Guardo l’orologio: è già tardi. “Ancora qualche minuto”, mi dico, mentre accendo il portatile e vado avanti con un racconto. Le parole della memoria si confondono con quelle dell’immaginazione.

Un sussurro. La tua voce.

Trascino la sedia sul pavimento e scatto in piedi, corro da te. Ma è stata solo un’illusione, mamma, perché tu non ci sei. Stai dormendo, la tua pelle è distesa, ma io non abito i tuoi sogni.

In questi momenti mi aggrappo alle parole: a tutte quelle che fatico a trattenere e che tu non puoi più pronunciare. Torno a raccontare l’amore di una figlia per la madre, ovunque sia, in una sala da pranzo troppo stretta o imprigionata in un ricordo. Amerò qualsiasi persona diventerai, anche se sembrerò stanca. Ti ritroverò in quegli occhi così azzurri e vivi che ogni tanto posi su di me, in quella scatola dei ricordi che ho nascosto nell’armadio, oppure nelle pagine del mio diario. Perché voglio continuare a raccontare e a raccontarti, anche quando tu sembrerai così lontana da non ascoltarmi. Perché sei tu che mi hai insegnato a parlare, e io, l’ho promesso, sarei diventata sempre la tua voce.



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11 risposte a ““Farsi voce” di Serena Barsottelli”

  1. Questo racconto è eccezionalmente soave.

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