
Incamerare aria. Trattenere il fiato. Se lo avessero concesso, tornare a respirare. Fingere di non sentire fastidio. Meravigliarsi senza gioia di quanto l’azione più naturale del mondo sia diventata complicata. Dolore diffuso. Dolore concentrato. Nonostante tutto sono viva.
Hanno applicato del nastro adesivo. Sarà utile, hanno detto. Se sarò collaborativa, non dovrò tenerlo a lungo. Tradotto: mangia quanto ti diciamo noi tutte le volte che vogliamo, e questa tortura finirà. Dobbiamo salvarti la vita, sei qui per questo. Nessuno si è fermato a chiedersi che cosa volessi. Nessuno mi ha interrogata su quali fossero i miei sogni, se la leggerezza rientrasse tra questi. Non è compito di questi medici porsi delle domande su come sia arrivata a pesare poco più di una piuma, troppo più di una piuma. A loro basta erigersi a supereroi; gli altri discorsi assumono la sfumatura di inutili paranoie. Non ci importa perché non mangi. E se non lo fai con la bocca ci penserà il sondino. Detto, fatto. Un tubicino che dalla narice arriva fino allo stomaco. Passa accanto ai polmoni e al cuore senza sfiorarli, senza accarezzarli. Potrebbe traforarli, porre fine alla sofferenza in pochi attimi. È un supplizio eterno, il mio. Devo ancora capire se a torturare il mio corpo siano più loro o io.
Riuscirei a parlare, ma non sono sicura di volerlo. Un colpo sulla tempia: le lettere che formano “fame”. Due colpi dietro l’orecchio, il rombo di un tuono: quelle di “colpa”. La fame e la colpa, perché la fame è una colpa. Sono ancora viva, da qualche parte, ma ho imparato a fingere che non sia così. Dopo i primi sforzi, ho finito per crederci. Piano piano sono riuscita a dimenticare tutto il resto. Non ricordo il desiderio di cibo, perché ho smesso di bramare ogni cosa.
Di tutto quello che potrei avere, non voglio niente. Se potessi scegliere chi essere, anche per un solo attimo, vorrei abitare dentro Martina. Martina con le sue ossa in vista che stanno insieme per miracolo. Potrebbe rompersi, andare in mille frantumi. Un fossile vivente che occupa il minimo spazio indispensabile. Si fa piccola piccola, la pelle diventa più secca. Un essere in decomposizione di cui i vermi non hanno ancora divorato tutti i brandelli di epidermide. Ma io lo so che Martina mangia, anche se non lo ammette. Io so che si nutre dei suoi incubi, nei suoi incubi, e che ogni notte sogna un piatto di porcellana bianca colmo di deliziose leccornie. Ma la sua forchetta non ha rebbi, e quando prova ad afferrare il cibo con le dita scopre di essere anche senza mani. Ogni tanto, nel sogno, riesce a piegarsi in avanti e ad afferrare qualche buccia con la bocca. Il sapore nauseante le esplode tra le labbra, e si sente finalmente sazia. Così riesce dove altri hanno fallito, e l’unico peso che aumenta è quello del disgusto. Di sé e di tutto quello che emana vita.
La ragazza della camera accanto bussa alle mie spalle. Vorrei gridare che non ci sono, ma dove potrei mai essere andata? Non giù nello scarico, lì non c’è posto neppure per la mia cena spedita dritta nel mio apparato digerente. Neanche un armadietto per i lassativi. Curarsi fa schifo, soprattutto se per fuggire da una prigione ti trovi chiuso dentro un’altra con le pareti appena più grandi.
Fa cenno con la mano e la seguo. Entra in una stanza tre porte più avanti, e io dietro di lei.
Buio, brusio confuso. Odore di panna.
La luce si accende. È il mio compleanno. Come ho fatto a scordarlo? Mi abbracciano, una dopo l’altra. Di alcune sento le ossa, di altre vedo il nastro adesivo sul naso. Tre di loro sono ragazze normali, forme al posto giusto, persino quelle di un sorriso sulle labbra; eppure, se sono lì è perché anche loro…
La torta profuma di dolce, profuma di buono, di terribilmente buono. Prima che abbia tempo di fermarlo, un dito si infila sullo strato superiore. Lo porto alla bocca. E sento, e ricordo. Lo stesso sapore dei compleanni di me bambina, quel manto soffice e gustoso preparato da nonna. E so che non è niente, ma è come se avessi appena preso la rincorsa e saltato il nuovo record mondiale in altezza.
“Potrei avere una forchetta?”
Tra i rebbi rimane un po’ di panna. Tra i rebbi rimane l’antico sapore di casa. È solo l’inizio, mi dico, ma sogno un giorno di togliere questo tubo dal naso. Di non preoccuparmi più di un numero sulla bilancia, perché prima o poi imparerò che sono altro. Forse scoprirò che la leggerezza non è questione di peso corporeo, ma è un abito mentale.
Un giorno non lontano da oggi. Buon compleanno.
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