Vivere con il doc – Qualcosa che sento di dover dire.

Ho pensato molto prima di scrivere queste righe. Sì, perché un conto è parlare di qualcosa di cui si è sofferto, ma da cui si è guariti, come nel caso dell’anoressia. Essere dei superstiti, insomma, dei sopravvissuti. Essersi salvati, esserne usciti.
Ancora più facile è parlare del dolore fisico. È semplice dire che ho mal di schiena, ragionare sul mio lipoma, mentre è già più complicato parlare delle cefalee.
Scrivere di disturbi mentali mentre si vivono, però, è complicato. Complicato perché non si sa mai quando finisca il disturbo e inizi la parte sana. Complicato perché c’è uno strano stigma, per cui la malattia del corpo viene accettata, mentre quella psichica viene bollata. Sei una strana quando va bene. Quando va male, sei una matta. In ogni caso, meglio girare alla larga, come se questo tipo di patologia potesse attaccare chi abbiamo intorno. La verità è che io ho fatto e sto facendo del male a me stessa. Gli altri, chi mi vuol bene, può aver sofferto nel vedermi stare così, ma sono io ad aver gettato fango su me stessa e a essere scivolata sempre più in basso. Il disturbo mentale, il mio disturbo mentale, è un veleno che la mente mi distilla ogni giorno, goccia a goccia, lento lento.
[…] c’è uno strano stigma, per cui la malattia del corpo viene accettata, mentre quella psichica viene bollata.
Che cosa è successo?
Inizierò a parlare dei miei capelli, di quanto volessi donarli. I capelli sono cresciuti, cresciuti parecchio nel corso dei mesi. A un certo punto hanno fatto crac e sono arrivate le doppie punte. Si sono spezzati. Ho preso le forbici, ho rimandato il progetto della donazione, e li ho tagliati.
Quello che è successo a loro, è successo anche dentro di me. C’ero io, qualcosa che cresceva dentro di me, dei pensieri che diventavano sempre più presenti. E finché li buttavo nelle storie erano un grandissimo punto di forza. Insomma, riuscivo a visualizzare proprio tutto, la storia scorreva davanti a me e ogni dettaglio era nitido. Poi, non so come, ho fatto crac. Il pensiero arrivava all’improvviso nella mente e non riguardava quello a cui stavo lavorando, ma le mie paure più profonde. Era una vampata di calore, mi faceva sentire così viva, ma così vulnerabile, quasi moribonda. Il cuore che impazziva e nella testa quel pensiero che diventava sempre più grande, fino a scacciare tutti gli altri.
Una parte di me provava a combatterlo quel pensiero. Uscivo esausta da quegli episodi sempre più frequenti. Perché se già il pensiero ossessivo mi rubava energie, con le poche che mi rimanevano cercavo di combatterlo con un altro pensiero razionale oppure con le compulsioni. Sono arrivata ad avere le mani rotte, gli occhi spiritati. Anche oggi mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Non sopporto la mia immagine, quello che vedo oltre quello sguardo.
Pensavo di poter gestire il mio problema, poi ho capito che era arrivato a un livello insostenibile. Ne stava andando di tutto. Ne stava andando soprattutto di me stessa. Sì, perché se è chiaro che non voglio spegnermi, non voglio rinnegare tutto ciò che sono, è anche vero che il disturbo aveva preso il sopravvento su di me: era lui a tenermi sotto controllo. Esattamente come era successo con l’anoressia.
E voi potreste chiedermi perché ne sto scrivendo. Potreste passare da un “chi se ne frega” a un “che sfigata”. I motivi sono due: il primo è che ho parlato anche della mia vita personale, perché indubbiamente influenza anche le storie che si affacciano nella mia mente e che provo a scrivere. Come ho parlato di problemi fisici, perché non condividere quello psichico? La sincerità paga sempre. E poi c’è il secondo motivo.
Il secondo motivo è che circa il 2% della popolazione soffre di disturbo ossessivo compulsivo. Può avere tante forme, ma non è questo il punto. Il 2% non è poco. E io vorrei rivolgermi a chi ne fa parte, a chi come me combatte una lotta estenuante ogni giorno. Dire: “Non sei solo”, “Ce la faremo, anzi ce la DOBBIAMO fare”.
[…] circa il 2% della popolazione soffre di disturbo ossessivo compulsivo.
La cosa che mi fa sorridere è che in una certa misura questo mio problema mi ha aiutato anche nella scrittura: la cura di ogni singola parola, l’attenzione ai refusi, la visualizzazione ripetuta e continua della stessa scena, con l’attenzione ora su un dettaglio ora sull’altro. Per questo non voglio spegnerlo del tutto, ma imparare a gestirlo in modo più funzionale. Per farlo, deve essere in una forma più tollerabile.
Sì, è vero, non è una malattia mortale. È molto meno pericolosa in questo senso rispetto all’anoressia. Eppure vi confesso che mi sono sentita e mi sento mille volte peggio. È questione di qualità della vita, qualcuno mi ha detto. E quel qualcuno aveva ragione.
È questione di qualità della vita, qualcuno mi ha detto. E quel qualcuno aveva ragione.
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