Stavolta tocca a me – Rispondo alle domande degli autori di maggio

Perché, qualcuno dice, fare domande è facile. Il problema è rispondere



Eh, ma per te è facile fare domande! Mica devi metterti lì e pensare a dare risposte con un senso logico e magari anche in italiano corretto! Risposte sincere, sì, e che lascino anche un po’ di curiosità su chi sei e su che cosa fai! Tutti possiamo fare domande, ma rispondere…


Forse è vero: è più facile fare domande che dare risposte. La scienza ce l’ha insegnato, ma è la filosofia quella che ne ha fatto uno stile di vita. Pur consapevole di non trovarle, non definitive, almeno, quelle Verità con la V maiuscola che sarebbero tanto piaciute a Platone, non possiamo fare a meno di interrogarci. Chiedere.


Domandare è lecito, rispondere è cortesia.


E allora proviamo a metterci in gioco fino in fondo.


Ho chiesto agli autori che avete conosciuto nelle interviste del mese di maggio di farmi una domanda (una soltanto) a testa. L’argomento era a scelta tra quelli di cui ci occupiamo: libri, scrittura e lettura.

Che cosa ne è venuto fuori?

Curiosi? Continuate a leggere!


Stefano Cirri: Leggendo ‘I racconti della cenere’ emerge un contesto molto cupo, quasi decadente, dai colori spenti. Ma emerge anche molta speranza. Ti sentiresti di dire che questi sono elementi caratteristici della tua scrittura? E se sì, perché? 

Non ci avevo mai riflettuto fino in fondo, per cui ti ringrazio per questa opportunità. Sì, direi che la decadenza è senz’altro l’elemento che più caratterizza le ambientazioni sfondo delle mie storie. E sì, direi anche che in quasi tutte, alla fine, c’è almeno un barlume di speranza. Il perché è presto detto: credo di essere così, come ognuno di noi del resto.

C’è stato un periodo della mia vita in cui ho seriamente preso in considerazione di superare la mia fobia per gli aghi e farmi un tatuaggio. L’idea era questa: tatuare un essere stilizzato con un’ala di cera, come quella di Icaro, desideroso di toccare il sole e quindi destinato a bruciare; l’altra ala doveva essere di fuoco, come quella della Fenice, capace di rinascere dalle proprie ceneri. Credo che queste due caratteristiche convivano dentro di me, come in voi, che siano l’essenza del nostro essere umani. Siamo un misto di desideri, speranze, disillusioni, cadute, nuovi desideri e via dicendo.


Marco Venturi: incipit, copertina, quarta di copertina, titolo, prezzo. 

Metti in ordine di importanza per te questi 5 elementi come effetto leva positivo durante la valutazione di acquisto di un’opera di un autore emergente.

Questa è una domanda molto interessante. Penso di essere un po’ atipica in questo caso. Per prima cosa leggo la quarta di copertina: mi deve attrarre la storia, mi deve colpire qualcosa, anche un semplice dettaglio. Devo aver voglia di leggere, di andare avanti quasi fino alla fine, per poi poter rallentare e gustarmi il finale a piccole dosi.

Al secondo posto metto l’incipit, anche se preferirei un estratto a caso. Non è tanto lo stile dell’autore a farmi decidere se desidero leggere o no quel testo, perché ho imparato ad approfondire libri totalmente diversi tra loro anche stilisticamente. Quello che cerco è la cura del testo, la ricerca della parola giusta e la funzionalità alla storia.

Al terzo posto, purtroppo, metto il prezzo. Sono una precaria, sono una mamma di una bambina piccola e sono costretta a prendere poche ore di lavoro come dipendente proprio perché devo occuparmi anche di lei. I soldi sono quelli che sono, inutile nascondersi dietro un dito. Se devo investire una cifra importante, lo faccio solo per gli autori che amo.

Al quarto posto metto il titolo. Al quinto la copertina. Spesso sono fuorvianti rispetto al reale tema del libro, per cui preferisco non farci troppo caso. Tendono a rispondere troppo a bisogni di mercato. Certo, poi, una bella copertina attrae chiunque. Mi è successo di recente di rimanere colpita e di voler approfondire, ma è un caso più unico che raro.


Angela Colapinto: la nostra collaborazione, e anche la nostra amicizia, nasce proprio dal legame tra due dei nostri personaggi; ogni volta che leggo qualcosa di tuo, ciò che più mi colpisce è proprio la relazione, che siano le poche pagine di un racconto breve o qualcosa di più lungo. Si potrebbe affermare che sono le relazioni che costruiscono le storie, così nella scrittura come nella vita reale, o quando scrivi hai in mente prima ciò che vuoi far accadere e poi pensi a come i personaggi possano interagire? Oppure semplicemente le due parti camminano insieme? 

Nella maggioranza dei casi l’idea arriva con un flash: vedo una scena. Da lì nascono una serie di domande: come si è arrivati fin lì? Chi sono? Dove andranno? Credo che il fulcro sia sempre il personaggio con la sua storia e l’intreccio con quella degli altri. Non so se è sempre stato così, ma sicuramente da quando ho iniziato a vivere la scrittura, quindi da quando abbiamo condiviso quella bellissima esperienza in cui io ero Andrea Gori e tu Margherita. Credo che anche nella vita reale, in fondo, sia così: che siamo frutto sì delle strade ma anche dei compagni di viaggio che scegliamo. Siamo animali sociali diceva un grandissimo filosofo qualche secolo fa. Siamo fatti soprattutto delle nostre relazioni. E potrei continuare con il citare la saggezza popolare, per cui con chi ti accompagni racconta qualcosa di te.

Per rispondere alla tua domanda, diciamo che mi focalizzo sul personaggio. Le relazioni sono una parte fondamentale del suo background e del suo sviluppo. E poi mi piace pensare che per quanto le guerre si combattono da soli, per quanto possiamo cercare di isolarci, di essere asociali (io in primis, eh), sia necessario confrontarsi con pensieri ed emozioni di altri per crescere davvero.


Federica Baglivo: Nei tuoi racconti hai parlato di tematiche sociali (come i disturbi alimentari) oppure di episodi della Storia poco conosciuti. Pensi che lo scrittore abbia una responsabilità nell’educazione della società e nella diffusione di determinati messaggi?

In linea generale, penso che chiunque utilizzi una forma d’arte possa farsi carico della responsabilità di portare un messaggio. Credo che ogni storia, alla fine, ne porti uno. Anche quella che potrebbe sembrarci più immorale potrebbe nascondere comunque un messaggio positivo. In generale mi concentro sui personaggi, soprattutto nei progetti più grandi, come raccolte, serie o romanzi. Non li giudico mai anche quando fanno scelte che vanno contro la mia morale. Alla fine è la mia, non la loro. Cerco di capirli, di farli capire al lettore. E di far capire che in fondo siamo tutti fatti di luci e di ombre.

Quando scrivo racconti, mi capita quasi senza rendermene conto di veicolare messaggi di un certo tipo. “Briciole” è nato mentre preparavo un compito per un corso di scrittura. Dovevamo scrivere di cibo ed è esploso, senza che potessi controllarlo. Ancora oggi è l’unico racconto su cui non riesco a rimettere mano. Sono troppo coinvolta. Dico sempre che io ho un conto in sospeso che devo pagare e lo faccio facendo viaggiare “Briciole”, andando nelle scuole a parlare. Credo sia il mio modo di riscattarmi dal male che mi sono fatta. Se un giudizio c’è, quello va solo a colpire me stessa.

Cerco di rientrare in tema, sto divagando. Io credo che uno scrittore abbia la possibilità di avere un ruolo nell’educazione e nella diffusione di certi messaggi. Una possibilità, non la responsabilità. Noi raccontiamo storie, personaggi, incontri. Il lettore, se vuole, può provare a trarre alcune conclusioni, ma è un compito che spetta principalmente a lui.

Ho pubblicato un romanzo su un personaggio che l’opinione pubblica additerebbe come un mostro, eppure io ho cercato di ascoltare le sue ragioni e di mostrarle al pubblico. Non so se ci sono riuscita davvero, ma l’unico messaggio che vorrei davvero lanciare come autrice è che tutti, alla fine, siamo fatti di opposti.


Massimo Berti: ciao Serena. Hai davanti agli occhi l’estratto di un libro scritto da un autore famoso, diciamo una ventina di pagine consecutive scelte dalla parte centrale della storia, e un estratto, anche qui una ventina di pagine consecutive, di un altro libro scritto stavolta da un autore alla sua prima opera, chiamiamolo pure emergente, magari self publisher. Stesso genere. Ovviamente non hai letto prima nessuno dei due libri e non sai chi siano gli autori, sai solo che uno dei due è famoso. Da che riconosci, se pensi sia possibile, la mano, la penna, dell’uno o dell’altro? Grazie.

Credo che anche nel self publishing sia possibile trovare prodotti di ottima qualità che non hanno niente da invidiare a quelli di case editrici più o meno blasonate. Se entrambi sono stati lavorati professionalmente, ti rispondo in sincerità che non dovrei poterli distinguere. Non mi baserei neanche sulla presenza di un refuso, perché noto che sono presenti anche in opere che dovrebbero essere state lavorate con attenzione.

Mi vengono in mente solo due casi in cui potrei riuscirci: se un’opera self non è stata lavorata in modo professionale, ma in forma dilettantistica nell’ottica “faccio tutto da solo, non mi serve correzione di bozza, editing, impaginazione e copertina”, potrebbero essere presenti ingenuità narrative e stilistiche. Certo, potrei avere avuto la sfortuna di beccare un passaggio in cui il buco narrativo è voluto. Andrebbe comunque letto tutto.

L’altro caso è se riconoscessi un tema, un’ambientazione, un personaggio o uno stile tipico dell’autore famoso. Per esempio: King. Maine? Mentalizzazione? Sarebbero già due grandi indizi che mi potrebbero far pensare a lui.


Vincenzo Ibba: Quale genere di romanzo scriveresti con più difficoltà avendo in mente la storia. Tieni conto anche del genere humor.

Caro Vincenzo, hai proprio centrato il mio punto debole. Credo di non riuscire a far ridere i lettori. Devo essere sincera: non ci ho mai provato, perché credo che sia molto difficile cimentarsi in questo genere.

Nella vita “reale” ho un umorismo che in realtà è sporco di sarcasmo. Quando va bene, riesco a essere ironica, nella migliore delle ipotesi. Ecco: far ridere proprio non mi riesce, se non involontariamente, ma quelli si chiamano incidenti!

Sorridere sì, ma ridere la vedo dura. Per cui nella tua domanda, in realtà, c’era già anche la risposta! Penso anche che per poter scrivere un determinato genere sia fondamentale leggere molti testi di quel tipo e non ti nascondo di essere sempre stata più attratta dalle atmosfere cupe e torbide della tragedia anziché da quelle più brillanti della commedia. Vale anche per il cinema, eh. Per le serie tv, invece, posso fare qualche eccezione.


I miei autori di maggio si sono vendicati! No, scherzo. Forse. Vedete, non riesco a far ridere! Ve l’avevo detto!

Alcune domande mi hanno messo veramente in crisi. Non sono sicura di aver risposto fino in fondo. Ci ho provato, però! Apprezzate lo sforzo.

Grazie ancora a tutti i miei autori di maggio per essersi prestati a questo scambio di ruoli e spero che si siano divertiti a passare per qualche minuto dall’altra parte.

Grazie anche a voi che siete arrivati a leggere fino qui. Spero di avervi raccontato qualcosa su di me senza avervi annoiato!



2 risposte a “Stavolta tocca a me – Rispondo alle domande degli autori di maggio”

  1. Cosa dire….semplicemente grazie

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  2. […] a intervistata e devo ringraziare gli autori di maggio per essersi prestati al gioco. Trovate qui le loro domande e le mie risposte! […]

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