La solitudine di una neomamma



Estate 2019.


C’è una bambina tra le mie braccia: la guardo e non la riconosco. Eppure dovrei, è mia figlia. Ha pochi giorni, giorni di vita qui-fuori, è mia figlia. Siamo state insieme nove mesi: inseparabili, in simbiosi. E adesso stringo tra le braccia una bambina che dovrebbe essere mia figlia. Ma non lo è.

Non la conosco, non so chi sia. Non so perché pianga, lo fa spesso e io vorrei sparire. Vorrei riportarla indietro, al nido, e chiedere cosa abbia, cosa io stia sbagliando.

È pesante questa bambina tra le mie braccia. Ci ha messo tanto ad addormentarsi. Dicono che piange perché ha fame. Non mi piace la parola fame. E poi loro che ne sanno?

Non c’è latte. Loro che ne sanno?

Le braccia mi fanno male ancora, eppure adesso quella bambina dorme nella sua culla. Mio marito si sentiva esausto, è crollato anche lui. Io sono sola in questa stanza appena buia: c’è una luce piccola accesa, perché devo controllare la bambina. Io odio dormire con la luce, io ero abituata al buio più profondo. Anche stanotte non riesco a dormire.

Mi alzo senza far rumore, vado nel bagno. Forse qui avrò un mio momento, un briciolo di tempo per me, per poter anche piangere, se ne ho bisogno. Magari risponderò a qualche messaggio, vorranno sapere come stiamo.

Il cellulare è muto. Peggio: è vuoto. Successo come dopo un funerale: tutti vicini – anche troppo – i primi due giorni con i loro messaggi, le visite, i fiori. Poi il silenzio, ma dicono che sia per rispetto. E poi sono stata io a dire che adesso dobbiamo riassestarci. Non veniteci a trovare, per favore; magari un cambio per dormire, però, avrebbe fatto comodo.

Cerco conforto altrove, mentre piango senza far rumore. Scorro la conversazione di un forum di mamme, alcune sono ancora sveglie. C’è chi ha dovuto dare il latte artificiale e altre madri si scagliano contro di loro. Madri contro madri, donne contro donne. Io mi sento fuori dal mondo. Vorrei gridare, chiamare Mamma! e addormentarmi tra le sue braccia come quando ero piccola, ma sono sola, qui non c’è nessuno.

La sconosciuta nella culla, quella bambina che ancora non è mia, che non è più la mia.

Rumore di passi, leggeri, oltre la porta, nel corridoio. Sull’uscio appare mio marito. Mi chiede se sto male.

Sono solo un po’ stanca.

Dico stanca, perché è più facile, non implica ulteriori domande, racchiude un leggero senso di malessere che si può tuttavia lasciare inesplorato. Non è la parola giusta. Dietro stanchezza c’è tanto altro: smarrimento, senso di solitudine.

È più facile dire sono stanca che mi sento sola. Perché puoi avere chi ami accanto, eppure sentirti persa, abbandonata in mezzo a un deserto. So che c’è lui, mio marito, eppure delle volte arrivo a non vederlo. Lo avverto, come un’ombra, leggera, vicino a me, ma fatico a vederlo con i miei occhi.

Rientro nella camera, guardo la bambina nella culla: ha una mano tra la guancia e la bocca. Sorrido, perché anche nell’ultima ecografia la ginecologa me l’aveva fatta vedere ed era così. In quell’attimo, la riconosco.

Quella è mia figlia. Questa è mia figlia.

Ora la vedo, ora la riconosco.



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